Moda di lusso: operai sottoposti a schiavitù moderna mentre i prezzi sfuggono fuori controllo
Il legame tra moda e sweatshops si fa sempre più intricato. Secondo Capasa (CNMI), lo sfruttamento del lavoro nel settore è un “fenomeno isolato”. Ma è davvero così? O la moda è stata completamente assorbita dalla finanza, dominata dai fondi e dal capitalismo puro? La domanda tocca il cuore del dibattito odierno sul legame tra moda e sistema economico globale.
Recentemente, l’Antitrust italiano ha multato Armani per 3,5 milioni di euro per “pratiche commerciali sleali”, accusando il brand di ingannare i consumatori usando la responsabilità sociale come strumento di marketing. Il gruppo ha risposto con “sgomento e stupore”, promettendo ricorso.
Dal greenwashing al social washing, il copione è noto. Ma che senso ha punire un singolo brand del lusso quando il problema è sistemico?
Moda e sweatshops: casi isolati o crisi strutturale?
Pubblicazioni come Business of Fashion spesso dipingono lo sfruttamento del lavoro come un “problema italiano”. Eppure, quando Dior — un brand francese di proprietà di LVMH — affronta scandali simili, è chiaro che le decisioni che alimentano lo sfruttamento non sono prese dagli artigiani che cuciono borse in Italia. Sono le sale riunioni delle corporation a dettarle.
Sebbene i brand indipendenti e le controculture della moda possano sembrare alternative autentiche, il settore nel suo complesso rimane profondamente radicato nel capitalismo globale, governato da conglomerati (LVMH, Kering, Richemont) e private equity.
Moda nelle grinfie della finanza
La moda è davvero libera, o è solo un altro strumento del capitalismo? La celebriamo come espressione creativa, ma quanta autonomia ha realmente? Oggi il settore è plasmato da:
- Giganti del lusso e dominio degli azionisti: imperi quotati in borsa come LVMH (Louis Vuitton, Dior, Fendi) privilegiano margini di profitto, scalabilità e acquisizioni. La moda non è più creatività—è un asset finanziario.
- La privatizzazione del gusto: le tendenze sono ingegnerizzate: collezioni pre-autunno, linee “resort” e drop in edizione limitata esistono solo per alimentare hype e consumo infinito. Persino i movimenti “underground” (streetwear, sostenibilità) vengono rapidamente cooptati.
- Fast fashion estrattiva: Shein, Zara e H&M incarnano l’iper-capitalismo: lavoro sfruttato, obsolescenza programmata e algoritmi (non designer) che dettano le tendenze.
Il cambiamento è possibile?
Esistono forme di resistenza—ma sono sufficienti?
- Slow fashion: design etici e senza tempo che rifiutano la cultura dell’usa-e-getta.
- Vintage e seconda mano: una ribellione silenziosa contro la sovraproduzione.
- Brand indipendenti: oasi effimere prima dell’acquisizione o del fallimento.
Ma finché la moda rimarrà una macchina da miliardi, queste saranno solo gocce nel mare. La finanza detta ancora le regole— e nei board, il profitto avrà sempre la meglio sull’etica.
Considerazioni finali: basta illusioni
Siamo chiari: moda e sweatshops sono profondamente connessi. Il sistema di subappalti volutamente opachi e low-cost non è un “fenomeno isolato” (scusi, signor Capasa)—è il cuore pulsante del capitalismo moderno. Estrazione. Sfruttamento. La corsa senza fine a manodopera più economica.
Non si tratta solo di moda. Si tratta di ciò che valorizziamo:
- I vestiti devono essere strumenti finanziari o manufatti culturali?
- La creatività può sopravvivere quando i rapporti trimestrali contano più dell’artigianato?
La scomoda verità? Non esiste una moda etica sotto il capitalismo—solo gradi di complicità.
Dunque, ci troviamo di fronte alla domanda radicale:
È possibile immaginare una moda post-capitalista? O è condannata a servire il profitto per sempre?
Cosa ne pensi? C’è spazio per un cambiamento radicale — o è solo idealismo?