Un attacco alle pratiche di sfruttamento o protezionismo contro la Cina?
Martedì 10 giugno, il Senato francese ha approvato una legge per regolamentare l’ultra-fast fashion. Tra le misure, il possibile divieto di pubblicità per i colossi cinesi dell’e-commerce come Shein e Temu. La misura rafforza l’impegno della Francia a limitare l’impatto ambientale dell’industria tessile. Ma solleva interrogativi su chi tuteli davvero questa legge.
Senato francese: una legge contro il fast fashion
Lo scorso anno, l’Assemblea nazionale aveva approvato una proposta per ridurre i danni ecologici del settore tessile. Ora, il Senato ha votato quasi all’unanimità una versione modificata del testo. In qusto modo, ha tracciato un confine netto tra fast fashion e ultra-fast fashion. Quest’ultimo — dominato dai 7.200 nuovi modelli quotidiani di Shein e dagli abiti da 5 dollari di Temu — affronterà regole più severe. Invece marchi europei come Zara e Kiabi sfuggono ai vincoli più stringenti.
Le conseguenze ambientali sono innegabili. I prezzi stracciati dell’ultra-fast fashion hanno un costo. In Francia vengono buttati 35 capi ogni secondo e, in media, ogni persona acquista 48 capi all’anno, secondo l’agenzia statale Ademe. La legge prevede sanzioni fino a 10 euro per capo (o il 50% del prezzo al netto delle tasse) entro il 2030 per chi non rispetta i criteri di sostenibilità.
Ma il sottotesto politico è difficile da ignorare. I rivenditori francesi, come Jennyfer (in liquidazione da aprile) e NafNaf (in amministrazione controllata da maggio), da tempo accusano i concorrenti cinesi per il loro declino. Regolamentando in modo mirato piattaforme come Shein, il Senato rischia di trasformare questa legge in una guerra commerciale più che in una presa di posizione etica contro lo sfruttamento.
Comunque, prima dell’attuazione, la legge dovrà superare alcuni passaggi procedurali. Tra cui la notifica all’UE e il raccordo tra le versioni approvate dalle due camere. Ma la sua asimmetria è già evidente. Il testo attacca il sintomo (gli sprechi dell’ultra-fast fashion) evitando però la malattia (una corsa al ribasso globale su lavoro ed ecologia).
Considerazioni finali
In conclusione, il mercato del fast e ultra-fast fashion è in espansione — ma lo sono anche le sue conseguenze. Non si tratta solo di disastri ambientali, ma anche sociali, fondati su lavoro sfruttato e consumo usa-e-getta. Se la soluzione esclude i marchi europei che adottano lo stesso modello, si può davvero parlare di etica? O si tratta solo di interesse economico?
Il voto unanime del Senato francese può suggerire un consenso politico, ma non risolve la contraddizione di fondo. Una posizione veramente etica dovrebbe mettere in discussione il modello stesso di sfruttamento. Questo, a prescindere dal fatto l’etichetta indichi “Made in China” o “Made in Europe”.
Quindi torniamo alla domanda centrale: questa legge è una presa di posizione contro gli abusi del fast fashion o un attacco alla Cina? La risposta, proprio come l’industria che vuole regolamentare, potrebbe non essere così sostenibile come sembra.