Caporalato nel settore moda: firmato un accordo storico

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Autorità e brand si impegnano contro lo sfruttamento: progresso o solo una promessa?


A quanto pare, l’industria della moda è finalmente pronta ad affrontare una delle sue verità più scomode: il caporalato. Cioè, il subappalto illegale del lavoro.

Lunedì 26 maggio, dopo un anno di trattative, è stato firmato presso la Prefettura di Milano il “Protocollo d’intesa per la legalità degli appalti nelle filiere della moda”. L’accordo punta a promuovere legalità, equità e trasparenza lungo tutta la catena produttiva, sostenendo al contempo lo sviluppo del settore.

Sollecitata dalle indagini della Procura di Milano — che hanno coinvolto brand come Alviero Martini S.p.A., Dior, Armani e, più recentemente, Valentino — la Prefettura ha individuato l’urgenza di misure concrete. L’intesa è volta a migliorare le condizioni di lavoro, contrastare lo sfruttamento e limitare l’evasione fiscale e altre pratiche illecite nel comparto manifatturiero della moda.

La filiera moda e caporalato: cosa prevede l’accordo


Il protocollo introduce un sistema a “doppio binario”:

  • Una piattaforma digitale della filiera: le aziende manifatturiere potranno registrarsi volontariamente e fornire dati dettagliati sulla propria struttura, sulla forza lavoro e sulle fasi produttive.
  • Una “lista verde” di aziende verificate: I brand potranno consultare questo elenco per individuare fornitori con operazioni trasparenti e tracciabili.

Per incentivare l’adesione, le imprese in regola potranno ottenere un “Certificato di Trasparenza nella Filiera Moda”. Potranno così accedere ai benefici regionali previsti dalla Lombardia.

Rilevanza nazionale e riserve del settore


Luca Sburlati, Presidente di Confindustria Moda, ha sottolineato la rilevanza nazionale dell’iniziativa, pur partendo da una base territoriale:

“La portata nazionale è evidente — sia per l’ampia rappresentanza dei firmatari, sia perché le filiere della moda superano i confini regionali.”

Sburlati auspica un’estensione del modello a livello nazionale. Tuttavia, non tutti gli attori del settore sembrano pienamente convinti. La Camera Nazionale della Moda Italiana (CNMI) ha espresso delle perplessità:

“Alcuni elementi essenziali devono essere ridefiniti operativamente per evitare ricadute negative non volute sulle aziende e sulla filiera.”

In particolare, CNMI solleva dubbi sui potenziali rischi per la riservatezza dei brand e la gestione dei dati sensibili all’interno della piattaforma.

L’adesione: volontaria… per ora


Dunque, l’industria della moda ha finalmente firmato un accordo per porre fine a caporalato e subappalto illegale del lavoro. Gli sweatshops del lusso. Ma una filiera sana ha un costo — i brand sono davvero pronti a sostenerlo?

Inoltre, la partecipazione alla piattaforma è su base volontaria, ciò solleva dubbi sull’impatto reale dell’iniziativa. Senza obblighi vincolanti o conseguenze chiare per chi non si conforma, c’è il rischio che solo una manciata di aziende “virtuose” aderisca —mentre le altre continuano ad agire nell’ombra.

Se la trasparenza è davvero l’obiettivo, basteranno le buone intenzioni?

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